

Vi immaginate come sarebbe il mondo se le spiagge, per dire, di Scala dei Turchi, Porto Selvaggio o Cala Mariolu fossero meta solo di persone che hanno una relazione affettuosa con loro? Se qualcuno, insomma, insegnasse la bellezza dei luoghi, il loro rispetto, la loro capacità di accoglienza e restituzione!
Passeggiare con questa consapevolezza è lo scopo di ogni cosa. Come se la flânerie potesse tradursi in una specie di religione dei luoghi.
Esiste il verbo "flanare"? Peculiare, poco usato, ma sì, esiste. Non esiste (eppure c'è) nell'accezione onomatopeica usata da Roberto Carvelli nel suo libro La gioia del vagare senza meta - Piccolo eserciziario della flânerie (Ediciclo Editore), a imitazione di quel meraviglioso termine francese conosciuto, appunto, come flânerie, una condizione antitetica alla frenesia del tempo attuale, ovvero la possibilità di passeggiare per una città senza un luogo da raggiungere e un orario da rispettare.
L'autore descrive gli incontri casuali che un moderno bighellone può fare andandosene a zonzo. "Bighellone"... "zonzo", che termini terribili! In realtà Carvelli ci affascina descrivendo i pensieri di un vero e proprio filosofo in moto, che scova gli angoli reconditi della città, luoghi e volti che si colgono solo soffermandosi senza fretta. Ed è questa l'essenza del flâneur, la capacità di avere uno stato mentale di quiete in cui l'osservazione si fa riflessione e la riflessione si fa specchio di bellezze nascoste.