
Discorso celebrativo del centenario dell’Unità d’Italia, pronunziato il 27 marzo 1961 dal Prof. Salvatore Sangiorgi nel Teatro S. Alessandro, per espresso incarico del Sindaco pro tempore Dott. Gaetano Gulotta.
Signori,
Con trepidante gioia adempio l’onorifico incarico di celebrare in questa ridente cittadina la gloriosa ricorrenza del centenario dell’Unità ed indipendenza della nostra amata Patria. Arduo è il tema sul quale devo parlare, ma esso risponde ai sentimenti innati dell’animo mio di educatore. Ed è per questo che mi accingo a trattarlo con vero amore, quantunque il brevissimo tempo accordatomi per la preparazione non mi consente di lumeggiarlo per come si deve. Quindi chiedo a voi benevolo compatimento.
Dopo lunghi secoli di smembramento e di soggezione straniera, l’Italia si è costituita a nazione unita e indipendente, nel corso del secolo diciannovesimo, per effetto di rivolgimenti interni e di eventi internazionali, che in parte si spiegano come maturazione di tendenze remote e spontanee, in parte rappresentano circostanze in tutto straordinarie, che hanno quasi del prodigio.
L’Italia, così nettamente differenziata nel suo territorio nazionale tra la cerchia delle Alpi e i tre mari, già, molto avanti la fine del Medioevo, pur tra le divisioni profonde delle sue repubbliche e dei suoi regni, delle sue signorie e dei suoi principati, aveva rivelato la perfetta maturità dei suoi fattori nazionali : razza, lingua, tradizioni, costumi, leggi, religione, e in parte coscienza nazionale; ma per un errore non nuovo nella storia della penisola, fattasi impotente ad ogni difesa militare, mentre intorno si erano formate le grandi nazioni accentrate dell’Europa occidentale : Spagna, Francia, Austria, Inghilterra, allora meno civili, ma militarmente ordinate e forti, aveva subito l’invasione straniera, era diventata il campo delle competizioni europee, aveva sofferto nel proprio territorio i danni terribili delle guerre altrui e dello sfruttamento. I rivolgimenti dell’età napoleonica, rovesciando gli antichi governi e creando nella penisola più vasti nuclei territoriali, pur sostituendo alle antiche una nuova denominazione straniera, erano valsi tuttavia a ridestare in Italia il desiderio delle libertà politiche, a rianimare le energie sopite della razza, a rinnovare ed estendere i benefici della istruzione pubblica, e soprattutto a far conoscere ed apprezzare le virtù militari. Ma, con la caduta del dispotismo napoleonico, che aveva minacciato l’esistenza e la libertà di tutte le nazioni di Europa, l’Italia era stata ricacciata nella divisione degli antichi governi, sotto la rigorosa tutela della Santa Alleanza diretta dall’Austria; né sarebbe forse riuscita a riguadagnare l’indipendenza e l’unità, se la rivoluzione nazionale, preparata dai pensatori e dai martiri, e le guerre fortunate d’indipendenza, giovandosi abilmente di alcune contingenze favorevoli degli avvenimenti di Europa, non avessero d’un tratto scosso e rovinato l’edificio sapiente e multi latente della Santa Alleanza, e creato così un nuovo e potente elemento dell’equilibrio europeo, che in una occasione non lontana doveva contribuire a salvare l’Europa dalla minaccia di un nuovo e più terribile dispotismo.
La storia del Risorgimento italiano, che è la storia della formazione unitaria della più antica, e forse idealmente più nobile tra le nazioni d’Europa, non è soltanto la narrazione degli eventi meravigliosi che hanno condotto alla nostra unità e alla nostra libertà nazionale, ma è l’esempio tipico delle cause per cui una nazione può perdere e guadagnare la libertà, ed è insieme l’affermazione più solenne e più persuasiva dei diritti delle nazionalità nel sistema di equilibrio degli Stati europei; sicchè ha un altissimo valore educativo, per far sentire il pregio delle libertà civili e per formare la coscienza della necessità di una giustizia fra le nazioni. Il problema del Risorgimento fu quindi innanzi tutto un problema di educazione nazionale, poiché bisognava ridestare il popolo italiano, assopito dalle dominazioni straniere e dal dispotismo, per ridargli piena consapevolezza di sé e dei suoi destini e farne il creatore della sua storia. D’una tale esigenza si fece prima vigile assertore lo spiritualismo che accompagnò e sorresse il moto d’indipendenza e d’unificazione nazionale. Ma l’unificazione politica, che era stata energicamente voluta dalla fede invitta e dall’azione generosa di pochi e resa possibile da felici combinazioni diplomatiche, fece risorgere più urgentemente il problema della educazione nazionale, come quello che doveva portare a compimento l’unificazione politica, inserendo attivamente nella vita del nuovo Stato il popolo, che in gran parte era rimasto ad esso ostile od estraneo. Gli esordi della nuova Italia non sono stati lieti, appunto perché alcune potenze ne avversarono l’unità, perché le passioni politiche impedivano sicure direttive di Governo; ma la coscienza viva negli italiani di volere e di poter essere un’altra volta maestri di civiltà nel mondo, incamminò l’Italia verso nuovi destini, a prender parte alla politica internazionale e coloniale, alla potenza militare marinara e terrestre, alle rivendicazioni delle classi lavoratrici, ad una legislazione sociale e all’incremento della cultura. Paese povero, l’Italia, impiegò molta fatica ad imporsi, ma alla fine entrò nel novero delle grandi potenze e partecipò e partecipa alla missione di civiltà e di progresso in tutti i campi dell’attività umana. Il congresso di Vienna e la Santa Alleanza avevano affermato i diritti dei principi e la fine dell’era rivoluzionaria, ma non avevano potuto sopprimere le idee, che erano state l’anima degli avvenimenti, cioè la nuova concezione della vita politica, sociale, culturale, quale si era venuta sviluppando in Europa nella seconda metà del secolo XVIII. Bisognava ritrovare i contatti con la propria tradizione interrotta: problema che per l’Italia era più difficile che per le altre nazioni, data la caratteristica tutta particolare della sua storia. L’Italia non poteva parlare di tradizione nazionale, se non nel campo della cultura: in politica era mancato un centro unitario di coordinamento, a cui si poteva guardare per la riscossa nazionale. Questa specialissima situazione italiana imponeva alle classi colte il dovere di dare un’anima politica al popolo, per cui possiamo affermare che la faticosa costruzione della coscienza italiana è la storia stessa del nostro Risorgimento. Dopo il Congresso di Vienna in Italia fecero ritorno i sovrani dei vari Stati e subito si affrettarono ad abolire tutte le libertà di cui gli Stati avevano goduto durante il periodo napoleonico. Essi facevano assegnamento sull’Austria, la loro grande alleata. In caso di bisogno, l’aiuto del suo potente esercito non sarebbe certamente venuto meno. Ma un ritorno al passato era ormai impossibile.
Ai primi segni d’insofferenza dei sudditi, i sovrani dei vari Stati, in cui era divisa l’Italia, risposero con le violenze poliziesche, con le prigioni e con le forche. A loro volta, i sudditi risposero con le congiure e le rivolte. Nacquero così le società segrete, tra le quali primeggiò la Carboneria, che si diffuse rapidamente in tutta l’Italia. E incominciarono le insurrezioni. I primi moti carbonari scoppiarono nel Regno delle Due Sicilie. Nel luglio 1820, due giovani ufficiali carbonari, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, insorsero con le loro truppe a Nola e marciarono verso Napoli, sotto il comando del generale Guglielmo Pepe, allo scopo d’imporre la Costituzione al re Ferdinando I di Borbone. Questi, spaventato, la concedette, ma la ritirò poco dopo quando un esercito austriaco intervenne in suo favore e mandò a morte, insieme a tanti altri, anche Morelli e Silvati.
Il tentativo dei Carbonari napoletani rese l’Austria più vigile che mai. Nell’ottobre del 1820 vennero scoperti ed arrestati in Lombardia i patrioti carbonari Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, e pochi mesi dopo i conti Federico Confalonieri e Carlo Antonio Oroboni. Nel marzo 1821, un altro moto scoppiò in Piemonte, sotto la guida di Santorre di Santarosa, ma dopo alcune vicende, fu soffocato. Così pure fu domata la rivolta capeggiata da Ciro Menotti nel ducato di Modena nel febbraio 1831. Dopo tale anno, il movimento verso l’unità e l’indipendenza d’Italia continuò apparentemente sporadico per una quindicina di anni, e quindi proruppe generale e vigoroso tanto da provocare la prima guerra ufficiale del Risorgimento e da generare altresì profondi mutamenti interni. Durante il quindicennio si accelera la preparazione nazionale iniziata da un pezzo, si scartano i programmi di dettagli, si ricercano i mezzi più idonei per conseguire lo scopo desiderato, ed anche in questa ricerca si ottengono risultati notevoli in discussioni teoriche ed in esperimenti pratici che talora generano malumori fra i patrioti. Posto preminente e, in certi casi, preponderante nelle discussioni e negli esperimenti, occupa Giuseppe Mazzini, l’apostolo dell’italianità.
Egli a Marsiglia, nel luglio del 1831, fondava la << Giovine Italia>> con l’intento di raccogliere in una società nazionale quanti, memori delle azioni compiute e delle tendenze mostrate dai sovrani fino a quel punto, volessero lavorare per costituire l’Italia in uno Stato unitario ed indipendente con un governo sorto dalla Nazione. Come segno del programma italiano, considerato anche in rapporto con l’estero, adottava la bandiera tricolore: bianco, rosso e verde, e scriveva da un lato le parole : << libertà, uguaglianza, umanità>>, e dall’altro :<< unità, indipendenza >>. E nello statuto della società e in una serie di scritti, animati da vivo spiritualismo, cercava di coordinare l’azione propria e dei propri amici con quella dei novatori stranieri e di organizzare, mediante una solida educazione nazionale, le forze del popolo, tanto da poter tutto riassumere nelle formule: <<Dio e umanità>>, << Dio e popolo >>. Nel 1834, dalla Svizzera dove in quel tempo si trovava, Mazzini organizzò un moto per invadere la Savoia, allora appartenente al Regno di Sardegna, ma il moto fallì ed egli dovette riparare a Londra. Da lì continuò ad alimentare le speranze degli italiani. I suoi scritti arrivarono dovunque, con i mezzi più sorprendenti.
Nel 1849, insieme a Carlo Armellini e ad Aurelio Saffi, fu a capo della Repubblica romana, eroicamente difesa da Giuseppe Garibaldi. Caduta la Repubblica romana, Mazzini riparò ancora a Londra e prese ad organizzare altri moti, che non ebbero mai fortuna. Ma si può dire che egli avesse ormai adempiuta la sua missione poiché finalmente tutto il popolo credeva nell’unità d’Italia e per essa era pronto a combattere ed a morire. E venne l’anno 1848 che segna nella nostra storia la primavera della Patria. Alla notizia che in Vienna, capitale dell’Austria, era scoppiata una rivolta per ottenere la Costituzione, Venezia e Milano insorsero. Tutta Italia ne fu commossa. E il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria e, alla testa del suo esercito, mise piede in terra lombarda, inalberando il tricolore. Gli altri sovrani della penisola furono costretti da minacciose dimostrazioni di popolo ad inviare anch’essi truppe. Ma questa prima guerra per l’indipendenza, dopo le prime vittoriose battaglie, ebbe esito infelice. Ripresa, nel marzo 1849, subì la dolorosa sconfitta di Novara, alla quale fece seguito l’abdicazione del re Carlo Alberto in favore del figlio primogenito Vittorio Emanuele.
Ne seguì un decennio di preparazione per la riscossa. Di esso l’artefice ne fu Camillo Benso conte di Cavour. Egli, divenuto nel 1852 presidente del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna, fece costruire ferrovie, strade e canali; aprì scuole, incrementò l’agricoltura, riorganizzò ed accrebbe l’esercito, migliorò le finanze dello Stato. Ma non basta. Cavour seppe guadagnarsi le simpatie della Francia e dell’Inghilterra, allora in lotta contro la Russia, inviando in Crimea una spedizione di 15.000 valorosi bersaglieri. Così, nel 1856, al Congresso di Parigi, egli potè esporre, davanti ai potenti d’Europa, le tristi condizioni dell’Italia, in cui l’Austria spadroneggiava. Nel 1858, Cavour s’incontrò a Plombières con Napoleone III, imperatore dei francesi, e strinse con lui una preziosa alleanza difensiva. In tal modo, quando l’Austria attaccò il Regno di Sardegna nel 1859, la Francia unì il proprio esercito a quello di Vittorio Emanuele II, facilitando l’esito vittorioso della seconda guerra per l’indipendenza. Cavour seppe inoltre provocare le annessioni dell’Emilia e della Toscana e la liberazione delle Marche e dell’Umbria; né mancò di porgere aiuto a Garibaldi nella leggendaria impresa dei Mille. Fu detto il tessitore dell’unità italiana. E vengo ora a parlare di fatti che più riguardano la nostra Sicilia, cioè della spedizione dei Mille e del suo eroico Duce: Giuseppe Garibaldi. Figlio del popolo, nutrì nel suo cuore indomito un immenso amore per la Patria. Amico e seguace di Mazzini, prese parte alla prima guerra d’indipendenza, alla difesa della Repubblica romana ed alla vittoriosa seconda guerra del 1859 con i suoi Cacciatori delle Alpi. Ma era venuta l’ora della liberazione della nostra isola, oppressa dal tirannico governo borbonico. Fin dal settembre 1859, si erano fatti numerosi nelle città siciliane i comitati rivoluzionari e dalla Liguria e da Malta, per mezzo degli esuli, erano state introdotte in gran copia le armi. I moti incominciarono ad opera specialmente dei mazziniani siciliani Francesco Crispi e Rosolino Pilo e prima a Palermo.
Raccoltosi nel convento della Gancia, i ribelli il 4 aprile 1860 tentarono di sollevare la città contro il governo; fu per breve ora, perché i soldati borbonici intervennero decisamente ed infransero le deboli forze degli insorti; ma bande di << picciotti>> si erano organizzate un po’ dappertutto.
Della notizia della sommossa della Gancia si valse il Crispi per stimolare Garibaldi all’impresa, presentandogli la situazione siciliana più favorevole di quanto non fosse. Ma Garibaldi, che all’audacia congiungeva la prudenza di un gran capitano, dopo alcune giustificate incertezze dovute al timore di ricadere negli errori dei fratelli Bandiera e del Pisacane, accettò. Alla chetichella convennero a Genova, da ogni parte d’Italia, un migliaio di volontari, molti dei quali avevano militato con Garibaldi e nell’esercito regio nella passata guerra d’indipendenza. Vennero ad arruolarsi coi garibaldini anche alcuni stranieri, tra i quali l’ungherese colonnello Turr. A suoi collaboratori diretti Garibaldi scelse Nino Bixio quale luogotenente, Giuseppe Sirtori, capo di Stato maggiore, Agostino Bertani, proposto all’intendenza del Corpo. Con costoro erano altri patrioti ben noti: i fratelli Ganoli, il Crispi, Francesco Vullo, il Missori, Ippolito Nievo, Giuseppe La Masa, Cesare Abba, che stese poi la storia dell’impresa. Con finta aggressione Nino Bixio ed alcuni compagni s’impossessarono di due navi ancorate nel porto di Genova: <<Piemonte>> e << Lombardo>> della Società armatrice Rubattino e le condussero verso Quarto, da dove i garibaldini salparono, nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, alla volta della Sicilia, dove sbarcarono l’11 maggio a Marsala.
Il 14 maggio a Salemi il generale Garibaldi manifestò la sua lealtà, dichiarando di assumere la dittatura dell’isola in nome di Vittorio Emanuele II; tagliò corto così alle mire dei repubblicani, dei mazziniani, che tra i Mille e in tutta la penisola facevano passare Garibaldi come l’araldo della repubblica, naturalmente l’eroe si conciliò il favore non solo del re, che si era fidato di lui, ma anche, se non del Cavour, di quanti altri alla corte di Torino e fuori avevano sospettato di lui.
Il primo scontro con l’esercito borbonico avvenne a Calatafimi ( 15 Maggio ) ed ebbe felice esito. Questa vittoria ebbe importanza soprattutto di carattere psicologico e fu decisiva per la spedizione: infatti affermò il prestigio militare dei garibaldini, sia dinanzi ai siciliani, che accorsero numerosi a rinforzare il corpo di spedizione, sia di fronte ai borbonici. Fu così possibile dirigersi su Palermo che venne occupata il 27 maggio. Dopo la battaglia vittoriosa di Milazzo (20 luglio), le truppe garibaldine, eludendo la vigilanza delle navi borboniche, passavano lo stretto e sbarcavano in Calabria. La marcia diveniva ormai fulminea, e le popolazioni accoglievano Garibaldi come un liberatore . Le truppe borboniche, sorprese dalle mosse ardite di Garibaldi e di Cosenz, si sfasciavano e si arrendevano. Francesco II fugge da Napoli la sera del 6 settembre e il giorno seguente vi entra Garibaldi tra le acclamazioni entusiastiche di tutta la cittadinanza. Alla fine di ottobre, a Teano , Garibaldi consegnò il Regno delle Due Sicilie, che egli aveva liberato in cinque mesi, a Vittorio Emanuele che era ancora re del Piemonte ma che presto sarebbe stato re di tutta l’Italia unita. Questi fu d’animo buono , di carattere aperto e leale, generoso, schivo di qualsiasi etichetta, valoroso sui campi di battaglia, fidente nei destini della Patria. Poco dopo furono indette le votazioni o plebisciti: l’Umbria e le Marche, liberate dall’esercito piemontese; tutta l’Italia meridionale e la Sicilia, liberate dalle Camicie rosse, si unirono al Piemonte. Garibaldi, senza onori, senza ricompense, si ritirò come privato cittadino nella sua isola delle capre: a Caprera, pago del grande servizio reso alla Patria. Intanto si erano compiute le elezioni generali in tutte le provincie antiche e nuove., e il 18 febbraio 1861,inaugurando la nuova legislatura,Vittorio Emanuele salutava nel Parlamento adunato in Torino il primo Parlamento d’ Italia .Nel più grande entusiasmo fu proclamato il regno d’Italia: il relativo decreto fu sanzionato dal re il 17 marzo: questa pertanto è la data ufficiale. L’unità della nazione, per la quale si era tanto lottato e sofferto , era ormai un fatto compiuto. Il re avrebbe potuto assumere il titolo di Vittorio Emanuele I re d’Italia; ma per deferenza al predecessore omonimo, che abdicò nel 1821, mantenne il numero d’ordine che già aveva, cioè Vittorio Emanuele II. Presidente del Consiglio era il conte di Cavour. Il discorso alla corona fu un inno alle gloriose gesta recenti della Patria, un voto per l’immancabile lieta sorte futura, un memore pensiero ai gloriosi Caduti, un ringraziamento alle Potenze amiche ; Francia e Inghilterra, che avevano collaborato ai destini d’Italia. La meta dell’Unità era dunque felicemente raggiunta. Soltanto pochi anni prima essa pareva un sogno o, tutt‘al più, una speranza lontana; ma per questo sogno e con questa speranza nel cuore i patrioti avevano lottato tenacemente senza scoraggiarsi mai di fronte alle difficoltà, che sembravano talvolta rendere inutile ogni sforzo. Dal 1859 in poi, il cammino, già lento e faticoso, si era fatto rapidissimo e, in brevissimo tempo, il sogno era divenuto gloriosa realtà. E’ inutile domandarsi chi contribuì maggiormente al felice compimento della grande impresa: se Cavour o Mazzini, se Vittorio Emanuele o Garibaldi. L’unità d’Italia è certamente frutto della genialità politica del grande Ministro come dell’apostolato infaticabile del Pensatore genovese; è opera dell’intelligente e coraggioso comportamento del Re Galantuomo, come della miracolosa impresa dell’Eroe dei due mondi; ma soprattutto essa è il coronamento delle lotte e dei sacrifici di tanti che, per quarant’anni, noti ed oscuri, dimenticarono se stessi e vissero solo per l’ideale della Patria. Le generazioni, che avevano visto formarsi, in meno di due anni, da tanti Stati secolarmente divisi, un forte Stato unitario, che abbracciava quasi tutta l’Italia e comprendeva circa 22 milioni di abitanti, potevano guardare l’opera, ormai quasi compiuta dell’unità italiana, con un senso misto di meraviglia e di soddisfazione. Restava ancora esclusa la Venezia, ma tutti sapevano che la partita, sospesa a Villafranca, sarebbe stata presto ripresa; e quanto a Roma che, nella necessità logica delle cose, nella tradizione e nell’aspirazione universale, era idealmente il centro essenziale e l’apice della nuova formazione unitaria, sola capace di deviare e di fondere ogni formazione di interessi ed ogni rivalità municipale, un voto della Camera, proprio cent’anni fa, come oggi 27 marzo, in seguito ad un elevato, robusto discorso del Cavour, intorno a questo concetto: << Roma dev’essere la capitale d’Italia ed insieme del mondo cattolico>>, non aveva tardato a proclamarla con geniale ardimento,<< capitale d’Italia>>, nell’attesa di ricongiungerla di fatto alle membra ormai quasi tutte raccolte della Patria, a cui per tanti secoli aveva gloriosamente sovrinteso.
Signori,
ho finito. L’Italia odierna, ormai dopo le vicende or liete or tristi delle due guerre mondiali, si è ricostituita a Nazione libera, democratica e repubblicana. Gl’italiani si sono già risollevati dall’avvilimento e si sono rimessi al lavoro, come già tante altre volte avevano fatto nel corso della loro storia millenaria. Sono stati ricostruiti gli impianti portuali, le fabbriche, le case, le scuole, i porti, le strade e le ferrovie.
A poco a poco la nostra Italia ha assunto l’aspetto che ha ora: quello di un Paese civile che vuol diventare prospero e vivere in pace.
Il popolo italiano ha, difatti, sete di pace. Essa è la bianca messaggera che, riaprendo le frontiere ,riaffratella i popoli nell’industria e nell’arte, è la pia pellegrina che annunzia alle case il ritorno dei soldati ed ai solchi l’opera dei braccianti; per essa il bronzo dei cannoni riecheggia nelle mistiche campane di valle in valle invitando alla fede ed alla preghiera; per essa l’acciaio delle spade luccica nelle falci mietendo il grano sudato nella tranquillità piena dei campi; per essa i cittadini ritornano allo studio, al lavoro, all’amore; per essa torna la gaiezza ai focolari, il traffico sulle strade, l’idillio fra i giovani, e l’umanità, liberata dall’assillo della morte, nel ritmo delle incudini sonanti, tra il sibilo gioioso delle sirene e il tramestio dei carri innalza il suo canto alla vita tra impulsi di bontà e sogni di bellezza. E l’Italia nostra, oltre tutto il suo patrimonio storico- spirituale, è un miracoloso paese dove i fiori odorano di più, dove il cielo e il mare sono più azzurri, dove il clima è più mite, i frutti più saporiti, le donne più belle, il genio più grande, la parola più armoniosa che in tutti gli altri paesi del mondo. Paese che ha visto la più grande Repubblica, il più grande Impero dell’antichità; paese che Nostro Signore Gesù Cristo ha scelto come sede eterna della Sua Chiesa; paese che ha dato la più bella poesia con Virgilio e Dante; la più classica prosa con Cicerone,Boccaccio e Manzoni; la più perfetta pittura con Giotto, Raffaello, Leonardo e Tiziano; la più forte scultura ed architettura con Michelangelo, Canova, Bernini e Gagini; la più melodiosa musica con Rossini, Bellini, Verdi, Puccini e Mascagni; le più grandi scoperte ed invenzioni con Colombo, Vespuccci, Volta, Galileo, Marconi, Meucci, Pacinotti e Fermi; i più grandi pensatori con Machiavelli, Tommaso d’Aquino, Vico, Gioberti, Mazzini e Rosmini ; i più grandi condottieri con Cesare, Napoleone, Garibaldi e Diaz; i più intrepidi eroi in terra con Micca, Vittorio Emanuele II,Battisti, Toti, Cascino; in mare con Cappellini, Millo, Sauro, Rizzo; in aria con Baracca, De Bernardi, De Pinedo, Balbo; i più grandi politici con Cavour, Crispi, Vittorio Emanuele Orlando,Alcide De Gasperi. Rendiamoci, quindi, degni d’appartenere a tale illustrissima Nazione; manteniamoci sempre fedeli al sacro retaggio d’unità, di libertà e d’indipendenza lasciatoci dai nostri avi; amiamola questa nostra adorata Patria, serviamola uniti in un sol cuore, senza distinzione di partiti, con dedizione assoluta e disinteressata, con ardore e zelo indomiti, con legittimo orgoglio di figli.
Viva l’Italia